1° Classificata narrativa Chiara D’Epifanio con “Da leggere nel 2032”
Cara me del futuro,
se tutti gli eventi avranno seguito il corso ordinario, questa missiva ti troverà mentre fronteggi tre quasi-adolescenti, con Gaia appena maggiorenne, Marco investito dalla sua prima tempesta ormonale e Sofia alla soglia della fine dell’infanzia.
Auguri!
Vorrei davvero essere lì ad aiutarti, ma non avendo a disposizione una DeLorean per viaggi temporali, mi devo accontentare di fare qualcosa da qui e ti invio questo piccolo regalo di incoraggiamento, una memoria dei sogni e dei giorni che, nel bene e nel male, stanno segnando la tua quotidianità incasinata.
Non so se nel marasma delle tue giornate ti sia mai pentita di esserti impelagata nell’avventura della terza figlia, spero proprio di no. Da quando Sofia è con noi, tutte le foto di quando eravamo in quattro mi sembrano con uno spazio vuoto: Sofia ci mancava, doveva essere con noi. Non ho idea di come sia la marmocchia che devi gestire tu, ora lei è qui tra le mie braccia a sonnecchiare, mentre ciuccia beata latte e tenerezza (sì, sto scrivendo e allattando in contemporanea, non fare la saputella con il senno di poi, io non ho trovato soluzioni più sagge, accontentati).
Spero che Sofia si sia mantenuta come la vedo oggi, bella come un germoglio che sbuca dalla terra scura, con il suo buffo sorriso a gengive piene, che fa ridere di cuore anche dopo una nottata insonne. Mi ci è voluta una terza figlia per sentirmi mamma come quella delle poesie sdolcinate. Sarà che con questa pandemia che dura da due anni (e mi auguro che per te sia solo un racconto da tenere in serbo per i nipoti, insieme a quello che ai tuoi tempi non esisteva né lo smartphone, né i social) mi sono goduta la gravidanza con un’intimità inedita: niente stress da ufficio, niente dress code, niente riunioni in giro per l’Europa con il pancione sotto gli occhi e sulle lingue di tutti. Spero che tu sia rientrata felicemente nei tailleur, ma io benedico chi ha inventato le videochiamate.
Ti ricordi la bronchiolite di Marco diagnosticata la settimana prima di sapere che qui vicino esiste un paese chiamato Codogno? Spero di no, perché significherebbe che non stai più combattendo per far respirare tuo figlio. Vorrei tanto sapere che non dovete più tenere scorte di cortisone in casa, che non avete più filtri HEPA dappertutto, che non ricordi neanche più cosa sia una crisi respiratoria. Vorrei tanto che mi inviassi una foto del mio Marco bello come il sole che gioca a calcio, o a quello che gli pare, senza quella fragilità che gli spezza il respiro di giorno e di notte. Saperlo mi libererebbe da un’enorme angoscia, ma la natura vuole che lo saprò solo quando sarò te.
Invece non so se voglio sapere come sarà Gaia a diciotto anni, oggi è argento vivo, è un vulcano di idee e di esperimenti, è Scilla che sfida Cariddi, è una radio al massimo volume durante una tempesta magnetica. Vuole fare la scienziata (ha appena rotto un uovo, mescolandolo all’olio e al lievito per fare un unguento da spalmare in faccia al fratello, tranquilla, lo abbiamo salvato in tempo) e la Presidentessa della Repubblica (non si dà pace che le abbiano preferito Mattarella, ma ha detto che per la prossima volta ci riuscirà, non importa che è una bambina). Finora non ha mai vinto un oro nelle gare di corsa, ma è sempre salita sul podio e le corsie della pista di atletica sono gli unici binari che riescono a contenerla. Che scuola le avete trovato? Io non riesco a immaginare il percorso migliore per lei, spero che voi lo abbiate capito. Ho il sospetto che qualsiasi cosa voi facciate, Gaia, troverà il suo particolare modo di stupire.
Riguardo a Luigi non è che hai mai avuto grandi sogni nel cassetto, mi auguro che sia ancora tuo marito e che abbiate ripreso a passeggiare insieme, almeno una volta ogni tanto. Sarebbe bello sapere che siete riusciti a ritagliarvi di nuovo quello spazio per voi. Camminare era il nostro momento speciale da ragazzi, quando un kebab con patatine fritte e salsa bianca non ci saziava abbastanza e andavamo a prenderci anche un gelato al centro. Una scusa come un’altra per trascorrere ancora un po’ di tempo insieme. Oggi se riusciamo a mangiare quattro bastoncini di pesce seduti insieme allo stesso tavolo la considero una cena da Love Boat.
In tutta questa febbrile attività di sopravvivenza quotidiana, la scorsa estate sono riuscita a comprare quel grazioso piccolo rustico in montagna. Spero che tu non mi stia stramaledicendo per questo motivo. Ti ricordo che l’ho fatto per dare ai bimbi l’opportunità di sentirsi a casa su un crinale sferzato dal vento di libeccio, dove le stelle sfavillano nel nero delle notti estive e dove il cibo si produce con il lavoro delle proprie mani. Detto tra noi, l’ho fatto anche per te, hai tanto bisogno di ricaricarti di bellezza e di inebriarti di profumi. Spero che ti ricorderai dell’amore meravigliato che ti ha invasa quando il tuo sguardo ha abbracciato la valle assolata, arrivando fin laggiù verso il mare. Dopo tante ricerche un pezzettini di terra promessa. Ricordati anche che il prezzo era ottimo, è stata un’occasione. Spero tanto di averti dato un trampolino per realizzare il sogno di una piccola attività agricola e non una zavorra di conto aperto con Equitalia. Ero in buona fede, ricordatelo.
Come vedi sto facendo del mio meglio, sto lavorando alla realizzazione di tutti i tuoi sogni.
Tutti, tranne uno.
Ricordi quanto ti piaceva stare con gli amici, quando organizzavate uscite, quando facevate servizio negli istituti, nelle mense, nelle parrocchie. Era bello condividere i pasti e i luoghi, parlare, discutere, crescere. Te lo ricordi? È stato un tempo reale. Lontanissimo. Desidero ancora quella relazione, oddio quanto la desidero, ma ogni giorno aggiungo un mattone in più al mio bunker di solitudine, sta diventando una malattia, come quella di un tabagista che si accorge di essersi acceso una sigaretta solo dopo averla fumata. Ho iniziato a togliere il volontariato perché non compatibile con il lavoro, ho rinunciato ai gruppi di formazione perché rubavano il già poco tempo che dedicavo a Gaia, ho smesso di frequentare gli amici perché Marco era malato, non vediamo più i parenti per non rischiare i contagi.
La solitudine è una droga, seducente, rassicurante, voluttuosa, so che mi sta logorando, anelo a tornare a vivere con gli altri, ma ogni giorno che passa è sempre più difficile anche solo rispondere al telefono. Me ne manca la forza. Sto scavando una voragine e ci sto finendo dentro. Aiutami. È questo il vero motivo di questa lettera. Ti lancio una cima mentre sto precipitando. Salvami. So che ce la farai, per quanto possa essere spessa e impenetrabile la tomba di solitudine che sto costruendo, tu devi riuscire a penetrarla. Ricorda che le braci di vita ci sono, rimarranno, devi recuperarle. Al tempo giusto saprai come fare. Confido in te.
Ti voglio bene.
Te del passato 2022.
2° Classificata narrativa Michela Coriandolo con “Guillaume s’è perso”
Guillaume s‘è perso.
Un giorno si è alzato e non si è più trovato. Ha guardato nei cassetti, tra la biancheria pulita e quella sporca, in frigo, sugli scaffali della libreria, dietro al divano, ha chiesto persino al mostro che abita sotto al letto d agli scheletri nell’armadio.
Tutto inutile.
Guillaume non si trova da nessuna parte, ma non si dà per vinto. Quando si smarrisce qualcosa dicono basti semplicemente ritornare sui propri passi: Guillaume è certo di essersi perso a mezzanotte, in un frammento di sonno che sogno ancora non era.
Ricorda le luci di Via Po e l’alone bianco dei lampioni contro lo schermo del televisore, ricorda di aver pensato a quanto sarebbe stato bello guardare il documentario di Zahi Hawass su Disney Plus, ma aveva del lavoro da finire, era già in ritardo, e l’egittologo non si sarebbe mosso, in fondo, lo avrebbe aspettato, lo aspettava sempre, immortalato in eterno in un riquadro d’anteprima. E se anche non fosse riuscito a guardarlo il giorno successivo, allora se lo sarebbe gustato quello dopo, sebbene fosse già la terza o la quinta volta che ne rimandava la visione.
Quindi, ricapitolando, ha lavorato fino a tardi, si è addormentato sul divano, col cibo cinese ormai freddo sul bracciolo ed il murmure dei clienti della Berlicabarbis che arrivava ridendo dalla strada.
È un particolare importante, quello: aveva appuntamento là, al locale, con la ragazza conosciuta nella libreria di Piazza Carignano. La ricorda, sì, intenta a sfogliare un saggio in inglese, ricorda come ha sollevato la testa e gli ha sorriso, per poi invitarlo a visitare la nuova mostra su Tutankhamon. La vede, quasi l’avesse di fronte a sé, saltellare allegra sui sampietrini, le ciglia ingemmate da una ghirlanda di stelle.
Troppo lavoro, però, troppo, troppo ritardo, così ha rimandato l’incontro, posticipando a data da destinarsi gli occhi di lei che lo cercano da sopra la tazza di cioccolata fumante, e una bavarese al caramello salato che ha il sapore delle sue labbra.
Che razza di lavoro sia il suo, tuttavia, Guillaume non riesce proprio a ricordarlo. Dev’essere qualcosa d’importante se ha rinunciato alla ragazza, all’appuntamento, al documentario e prima di loro agli studi, perché si sa, con la cultura non si mangia e di sogni non si vive.
Eppure, quanti sogni aveva Guillaume da bambino. Sognava guardando Indiana Jones, si vedeva gattonare chino attraverso la Grande Galleria della piramide di Cheope, indovinare il percorso verso una tomba inesplorata e rincorrere i babbuini che strillano il benvenuto al sole sulla curva rovente delle dune.
Si perdeva in quei sogni, in libreria e in biblioteca, divorando testi e saggi, immaginando la sabbia crocchiolare tra i denti, figurandosi già ritto dinanzi alle porte di Deir E-Medina, l’orecchio teso ad ascoltare l’eco degli antichi artigiani chiamarsi l’un l’altro, scandendo il ritmo del giorno con strepiti, urla, grida e canti.
Sembrava tutto così chiaro, allora, più solido di un lavoro di cui non ricorda il nome, un intervallo d’esistenza cui non aveva promesso che pochi anni, giusto il tempo di assestarsi, sistemarsi prima di cominciare di nuovo l’Università. Un lavoro non amato, ma necessario, non soddisfacente, ma cui ha finito con l’assuefarsi, chiedendo alle statue di aspettarlo un anno, quindi un altro anno ancora, pregando i templi di non cadere e i geroglifici di non scolorire. Ancora un’ultima consegna da portare a termine, poi si sarebbe alzato dalla scrivania, sarebbe uscito dalla porta dell’ufficio, non sarebbe più tornato, ma…no, non quel mese, quel mese non poteva, non ancora, gli mancavano delle spese e poi dei pagamenti, delle fatture da saldare, dei conti da far quadrare, e la sabbia vorticava sempre più distante, sempre più lontano.
Guillaume non si è perso la sera prima, ora lo capisce, non si è perso a mezzanotte, tra le carte da compilare ed una confezione di pollo alle mandorle. Si è perso quando ha messo la vita in folle e l’esistenza in pausa, trascorrendo ogni giorno rimandandolo a quello dopo, e non può ritrovarsi, non così, perché dietro di sé ha soltanto sogni che incartapecoriranno in rimpianto se continuerà a nutrirsene riavvolgendoli in negativi color seppia.
Non è indietro che deve guardare Guillaume. È avanti.
Un percorso impervio dove il GPS non funziona e non ci sono mappe né autostrade, e le svolte portano a bivi e vicoli ciechi, le indicazioni sono confuse, ed un lucore biancastro sfrigola ingannevole sulla strada bollente.
Guillaume mette il piede in fallo più di una volta, inciampa, cade a terra, sulla nuda roccia, sulla cocente delusione, le dita arpionate alla gola, ad allontanare il nodo scorsoio del fallimento che gli preme sulla trachea.
Poi, ecco! Guillaume si raddrizza, d’improvviso, spalanca la bocca, ingoia ossigeno a grandi sorsate.
Accade così, da un momento all’altro. Quando si è perso è stato come essere ritagliato via dal mondo, ma ora sente i bordi combaciare perfettamente con la sagoma del proprio desiderio.
Non sa dire quanto è passato, non sa contare i giorni o le lacrime che ha pianto, non i mesi e le notti insonni, né gli anni in cui ha stretto la cinghia fino a stroncare il respiro.
Non è più importante, non più, non adesso che il suo cuore ha finalmente ritrovato i battiti persi nel dormiveglia di un’esistenza in bianco e nero.
La ragazza di Piazza Carignano ha qualche efelide in più sul naso, ma lo stesso sorriso di allora, un sorriso che sa di cioccolata calda e bavarese al caramello, e le accende di sole lo sguardo mentre gli appunta la spilla porta-nome sul petto.
L’ingresso ad arco del Museo Egizio li nasconde, in penombra, e c‘è una scolaresca che cicaleggia sul piazzale, in attesa di ad ascoltare la voce di Guillaume disegnare i contorni ormai adulti del suo sogno di bambino.
3° Classificata narrativa Maria Antonietta Carroni con “Attraversare il mare”
Il sole che sorge disegna sulla costa un orlo di montagne ritagliate nel cartoncino azzurro. In controluce, impossibile vedere il porto che attende la nave, in ritardo dopo la burrasca che l’ha sballottata per tutta la notte. Guardo giù lungo il fianco del traghetto, verso le onde pigre sfiorate dalle prime luci, e un’acqua trasparente, in apparenza ignare del trambusto che mi rivoltava lo stomaco e faceva gemere tutti i passeggeri fino a poco fa. Anche tormentata dalla nausea, ho sperato che la tempesta durasse all’infinito e mi impedisse di fare quel che tra poco dovrò fare. Che il mare mosso rovinasse l’attracco e ci costringesse a tornare indietro, verso il continente.
Invece eccoci, quasi arrivati. Mi stringo nel cappotto, un gesto meccanico contro il gelo umido del mare invernale, senza poter fare nulla per la mano di ghiaccio che sento posata sul cuore, Non posso ancora vedere il molo ma so già che loro sono lì, sorridenti in attesa di portarmi a casa. Seduti nella vecchia 500 senza riscaldamento, si stringono l’uno all’altra ripetendosi sottovoce tutte le cose che devono chiedermi appena sarò con loro, e tutte le novità del paese che mi sono persa in questi primi mesi lontana. Fà vedere il libretto, com‘è la mensa, sai chi si è sposato, quand‘è il prossimo esame, com‘è che sei così magra, com‘è che sei così pallida, sai chi arriva per Capodanno, ma quanto bagagli, ti sei portata appresso la casa, prenditelo un altro dolcetto. E poi al paese di nuovo, e quanto tempo che non ci vediamo, e tu sì che farai strada, e continua a studiare, mi raccomando. Forzare sorrisi, risposte evasive, c‘è tanto da fare, esami, crediti, borse di studio.
No, scuoto la testa, non andrà così, sarebbe solo rimandare. Meglio strappare il cerotto, farla finita il prima possibile. Cara mamma, caro papà, non riparto a Gennaio. Ho fatto la rinuncia agli studi. Resto qui con voi. L’avrei dovuto capire già all’andata, mesi fa. La prima volta che ho attraversato il mare per andare in quella grande università, in una città ancora più grande. Dovevo capire che non era il cammino per me. Ma era un nuovo cammino, dopo una vita di strade sempre uguali. La novità scintillava a portata della mia mano, illuminava il mare davanti a me come un cielo di cristallo. Mi sembrava di poter affondare lo sguardo fino ai coralli sul fondo, fino ai banchi di pesci argentati che sfuggivano l’onda di prua del traghetto e guizzavano avanti, verso il continente, dove ero diretta anch’io.
Perché sia andata così, non saprei spiegarlo. Non è che il mondo al di là del mare fosse brutto, oppure ostile. A volte, forse, ma per gran parte del tempo ne valeva la pena. C’erano persone meravigliose, e posti incantevoli, e colori, profumi, sapori che non sospettavo ma che intuivo quando, da ragazzina, iniziavo a sentire stretti i limiti della mia isola, e sognavo di partire. Adesso potevo vedere e toccare tutto ciò che mi era mancato, nel cerchio ripetitivo della mia piccola vita provinciale.
Qualcosa mancava sempre, però. Come un velo grigio che mi separava dalla realtà, rendeva senza peso le mie azioni, smorzava le risate e le lacrime, al sensazione di aver lasciato indietro qualcosa di molto importante ha iniziato a perseguitarmi appena messo piede sul continente. E non mi ha più lasciata, non importa quando impegnassi a scacciarla. Ho capito che era nostalgia quando, parlando in un gruppo di amici, la mia voce si è persa nel rumore generale. Invisibile, incorporea, non abbastanza me stessa senza una terra conosciuta sotto i piedi, non abbastanza qualcun altro per far percepire la mia presenza in mezza a quegli affettuosi sconosciuti.
Torno indietro perché penso che se non lo facessi, sparirei del tutto da questo mondo. Torno perché le novità del cammino che ho intrapreso mi hanno fatto desiderare di aver fatto quelle scoperte a casa, nel mio vecchio mondo, anziché rivolgere sempre lo sguardo all’esterno. Torno indietro, e so che è la scelta giusta, perché man mano che la costa di avvicina quel velo grigio si solleva dai miei occhi e vedo tutto come se fosse la prima volta. Come se il cammino mai percorso fosse questo, che mi riporta nel luogo in cui appartengo. E che forse, se non l’avessi mai lasciato, non sarei mai stata in grado di sentire mio.
Forse, rifletto, non è il velo della nostalgia quello che restituisce profondità all’orizzonte e contorni alle cose. Semplicemente, è il sole che sorge, abbacinante sopra i monti, a illuminare le acque del golfo, i moli già brulicanti di attività che finalmente riesco a distinguere, il lampo azzurrino e metallico di un’auto minuscola parcheggiata ad aspettarmi. Il sorriso sereno di due persone non più giovani che attendono la figlia di ritorno.
No, questo non posso ancora vederlo. Nemmeno con lo sguardo acuto di chi, dopo mesi, si è sbarazzato del velo di lacrime che annebbia la vista dell’emigrante. Ma posso ricordarlo. Mi accompagna sempre. Di colpo non so più di cosa avevo tanta paura. O meglio, si, lo so; di ammettere un fallimento; di deludere le loro aspettative; di andare incontro al giudizio di cerchi concentrici di familiari, amici, vicini, conoscenti. Ma mentre il traghetto entra finalmente nell’acqua ferma del porto, so che niente di questo ha importanza, per loro. Come non ne avrà per me. Appoggiata al parapetto incrostato di salsedine, riscaldata dai primi raggi dell’alba, non vedo l’ora di sbarcare. Ho attraversato il mare due volte, ho cambiato il mio cammino. Qualsiasi strada mi aspetti, una volta scesa, la percorrerò.
1° Classificata poesia Morena Festi con “Per ritrovare vecchie strade”
Nella pioggia di questi giorni freddi
dove i colori sono catene
abbiamo bisogno di luce.
Luce calda che attraversi le mura
e la pelle e le ossa.
Luce per ritrovare vecchie strade
per i nostri passi nuovi.
2° Classificata poesia Alessandra Bucci con “Sogni per il mio domani”
E mentre nella quotidiana penombra
il nastro del mio tempo scorre
non smetto di accendere sogni
per non perdermi al buio:
bimba, adolescente, madre,
donna matura, ho sempre
un sogno prezioso da custodire
fra le nude pareti d’un anima
testarda che non s’arrende
al chiaroscuro d’una vita opaca.
Un sogno nuovo che m’attende
ad ogni stagione che inizia,
un sogno che spinge avanti il cuore
attutisce la stanchezza,
rinvigorisce i muscoli stanchi,
dà luce agli occhi mai spenti.
Un figlio, un libro, un viaggio,
è la meta a dettare il ritmo,
è il brivido del desiderio
che ad ogni passo s’avvicina
per farsi sostanza ad indicarci la via
coi suoi messaggi di luce
che danno fuoco alla notte.
E quando i sogni smetteranno di brillare
sullo sfondo dei miei orizzonti di donna,
negli intimi focolari si spegneranno
anche gli ultimi tiepidi tizzoni
mentre m’abbandonerò alle tenebre
sognando solo pace eterna.
3° Classificata poesia Maria Rosaria Fonso con “Il sogno di zia”
La zia di quasi cent’anni
conserva un bellissimo sogno
nella sua rossa adorata borsetta:
ogni tanto la apre e lo scruta
fiduciosa sorride e guarda lontano:
lei, a braccetto con la libertà
che se ne va a passeggiare
lungo le vie della città,
per vedere il canale dal ponte,
per scaldarsi alle strette di mano,
per respirare il cielo di nuovo
e perché no?! per bere un caffè
al tavolino del bar
nella piazza centrale .
La zia di quasi cent’anni
conserva un bellissimo sogno
che “Prima di partire“dice
le darebbe gioia abitare:
veder finalmente aprirsi le porte
e uscire su un giorno di luce,
squarciare la plastica tela
abbracciare la gente di carne
sentirne la pelle sotto le dita
posare le labbra sul loro bene,
e portare sul viso soltanto
lo stesso sorriso indossato
quel venticinque aprile
di tanti e tanti anni fa.